Mancano poche ore, solo poche ore. E poi basta. Poi torneremo alla normalità. Ci riavvieremo piano piano (ma non troppo) ad alloggiare comodamente all’Hotel Oblio, lo stesso che abbiamo conosciuto dopo l’Aquila, in parte dopo l’Emilia, dopo le alluvioni, gli incendi, le calamità naturali che poi naturali non sono mai.
Mura insonorizzate quanto basta a non sentire il richiamo del dolore degli altri. Rincuorati dalla consolazione magra, magrissima, che i media invadenti diano fastidio. Quindi al massimo dopo una settimana, meglio che allentino la presa o direttamente vadano via.
Il 24 agosto per me è un giorno che ne racchiude tanti, tutti carichi di ricordi. Dopo l’anno scorso questa data ha assunto un altro valore ancora, sarà sempre l’anniversario del terremoto di Amatrice e di tutto il Centro Italia ferito a morte dalla scossa che alle 3.36 ha devastato vite e territori italiani.
L’anno scorso fui tra i giornalisti ai quali spettò il compito di assistere alla devastazione immediata dei territori colpiti.
Quest’anno, come molti di loro, ricorderò e riproporrò quei momenti fermati per sempre da immagini violente. Violente, sì. E invadenti, quando mostravano fotografie, ricordi, oggetti fino ad allora protetti da mura; irriverenti se mettevano a nudo l’intimità di chi non poteva più correre a casa a ripararsi; pubbliche pur senza licenza di esserlo, perché immortalavano realtà private senza permesso né autorizzazione.
Una sensazione che ho provato in modo netto davanti ai palazzi sventrati dai quali si vedevano bagni e camere da letto; nel campo sportivo allestito a obitorio, gli occhi gonfi e le braccia penzoloni della gente in attesa straziante.
La fase dell’oblio
Eppure la contraddizione di questo lavoro è che il racconto infelice e invadente, portato avanti dalla parola, dalle immagini e dalle foto, diventa ancora più crudele quando smette di essere pronunciato. Perché là dove la parola cessa, si apre la fase dell’oblio.
Si innesta così un meccanismo vizioso per cui l’orrore dell’incursione indebita – dei media così come dei profittatori – produce un vantaggio per le vittime superstiti per il solo fatto che si parli di loro.
Di recente sono tornata in Abruzzo, a Lucoli. Uno dei paesi più colpiti tra quelli della cintura dell’Aquilano dal terremoto del 2009. La casa che mi interessava visitare era l’unica, assieme ad altre quattro sparute abitazioni di una frazione in via di spopolamento, a non aver ricevuto il beneficio di un risarcimento che oggi permetterebbe quantomeno di entrarvi.
Molti degli abitanti di queste zone sono ancora sulla costa, lontani dalle loro montagne, dalle loro pecore, dal loro freddo, dalle loro abitudini. Stanno appassendo come fiori senza acqua, ma nessuno lo sa.
Non è un caso, ma si dice poco, che successivamente al terremoto dell’Aquila siano aumentate le morti repentine degli anziani trasferiti nelle località balneari e che abbia avuto un’impennata l’abuso di alcol e droghe da parte dei giovani alloggiati sull’Adriatico. Un dato che diventa sociale se riferito all’anoressia che ha colpito giovanissime donne.
In vista dell’anniversario del sisma, parlavo con Giuseppe Zamberletti, presidente emerito della Commissione emergenze della protezione civile. Mi spiegava quanto sbagliato sia sradicare il popolo dalle sue terre.
In Irpinia (1980) fu De Mita, originario delle zone terremotate, a non volere che gli abitanti venissero allontanati. Preferì imporre 20mila roulotte e un inverno sulle montagne dure, ma impose di non privare le popolazioni delle loro terre.
In Friuli, 1976, ci si diede il tempo massimo di sei mesi per ricondurre gli abitanti alle loro realtà, e fu rispettato.
La parola d’ordine è “farsi ricordare”
L’oblio che va evitato è anche questo. La caduta nel tunnel della dimenticanza che significa non essere più considerati. “Stanno sulla costa, stanno bene lì”. Lontano, il problema non c’è.
E all’orizzonte non si vedono foto, immagini o racconti di un disagio che si lascia covare in silenzio.
Un mutismo non è aiutato dal carattere serio e dignitoso degli abruzzesi. Che si rimboccano le maniche e fanno, ma che difficilmente chiedono.
Con il tempo mi sono detta “Benvenga dunque una figura come quella del sindaco di Amatrice”. Pirozzi, non più di altri ma diversamente da loro, sta lottando contro un nemico gigantesco che è la noncuranza, impugnando le armi della comunicazione.
Perché più di altri e diversamente da loro ha capito – o sa – che la parola d’ordine è “farsi ricordare”, “fare scalpore”, “fare notizia”, “dare fastidio”.
Dovremmo prendere spunto da questo atteggiamento, non dalla persona. E tornare oggi a dare fastidio, volendo darlo. Tutti, raccontatori e ascoltatori. Perché il disinteresse rende tutti violenti allo stesso modo.
Purtroppo invece ci collocheremo, ognuno ai propri posti, a far trascorrere questa giornata “come si deve”. Giustificati dall’atto dovuto, dalla ricorrenza, dall’anniversario. Da celebrazioni, ricorrenze, inaugurazioni. Portavoci e ascoltatori di intenzioni e propositi.
Ma facciamo tutto questo, e anche di più, senza la coscienza di dare fastidio.
E sbagliamo. Noi che raccontiamo perché concentriamo il nostro sforzo in un solo giorno, colmando di ripetizioni una sola giornata mentre dovremmo riempire, con i nostri racconti, un anno di 365 giorni. E chi ascolta perché dietro la tenda oscurante della passività pretenziosa, si riserva il diritto di non fare, non agire, non promuovere.
Mancano poche ore, pochissime. Sempre meno. E dopo, che lo si voglia ammettere oppure no, torneremo di nuovo ad alloggiare all’hotel “Oblio”.
Quello che ha ospitato tutti noi – raccontatori e ascoltatori violenti – dopo ogni calamità raccontata come se fosse l’ultima.
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