Le Ramblas che voglio ricordarmi sono queste: quelle che ho conosciuto a 23 anni quando, alla fine dell’Erasmus a Madrid, non paga e per niente sazia di aver assaggiato una fetta d’Europa, decisi di andarmene in giro per la Spagna assieme a una compagna della Complutense originaria di Treviso. Barcellona fu la prima meta.
Sarebbero seguite, in ordine sparso, Saragoza, Valladolid, Bilbao, San Sebastian, Valencia, Siviglia, Malaga, Granada… Ma la prima doveva essere Barcellona: dovevamo conoscerla, noi, questa rivale eterna della capitale della Castiglia, questa Milano di Spagna con il vantaggio del mare, così poco torera e molto europea.
E Barcellona fu. Poche pesetas, pochissime, una card per un Interrail iberico e uno zaino di pareos acquistati all’ingrosso a prezzo stracciato da rivendere ai turisti, all’occorrenza e in caso di necessità. Un commercio durato mezz’ora più o meno, il tempo di farci cacciare dalla polizia catalana con la promessa di non farci più sorprendere sulle Ramblas nella criminosa attività.
Eppure. Quel tempo sincopato fermato nella sosta voluta sulle Ramblas era bastato a stamparmi nello sguardo la vivacità di una città che avevo ostinatamente messo per seconda in una graduatoria di preferenze rispetto alla adorata Madrid.
Dalla mia posizione vedevo sfilarmi davanti persone di ogni provenienza, età ed estrazione sociale e culturale che coloravano quel grande viale pedonale. Mi scorrevano accanto mimi, saltimbanchi e giocolieri. Dalla mia postazione fissa, osservavo un mondo variopinto, uno spettacolo senza fine e mi sentivo spettatrice privilegiata. Incantata da un fenomeno spontaneo che difficilmente si replica altrove.
Rimasi a Barcellona più del previsto, stregata e ammaliata da una molteplicità di culture raccontata dalla stratificazione di architetture diverse, anticipo di un europeismo che si affacciava per imporsi timido ma deciso, come quei caratteri che sulla lunga vincono rispetto all’esuberanza di chi presto si spegne.
Viaggiare è un lusso spensierato, pensavo.
Le immagini dell’attentato…
Respiro, un occhio ai video, molti amatoriali, che mi scorrono davanti. E rifletto sulle polemiche interne alla Spagna e successive all’attentato del 17 agosto, un braccio di ferro teso tra il governo centrale di Madrid e le autorità locali per la mancanza di tutele: dissuasori mobili, ostacoli, posti di blocco. Sento addosso tutto il peso delle immagini che continuano a passarmi davanti, alcune andranno selezionate, altre saremo destinati a rivederle in eterno, macabro repertorio di ricostruzioni e anniversari.
Avverto il ripetersi di qualcosa, come un ritornello che già alberga nella mia testa ma che qualcuno vuol vendermi come nuovo. In realtà sono immagini già viste. Dal 2001 sono state colpite New York, Londra, Bruxelles, Parigi, Berlino, Manchester, Madrid, Barcellona, Stoccolma e Turku. In questi attentati hanno perso la vita giovani d’Europa.
Tra loro alcuni italiani entrati nella nostra memoria collettiva: Valeria Solesin (Parigi), Fabrizia Di Lorenzo (Berlino), Luca Russo (Barcellona)… Giovani partiti per dare un valore aggiunto a un’Europa che era già casa loro, studenti lontani dall’idea di andare all’estero.
Ritorno con gli occhi alle immagini. E mi lancio in un confronto: mi chiedo se la spensieratezza di chi oggi decide di andare a Barcellona è paragonabile a quella che avevo provato io, poco meno di venti anni fa. Scuoto la testa: io – e tutti quelli venuti prima dei grandi attentati d’Europa – non eravamo genericamente contenti di andare fuori, eravamo euforici.
Ombre non ce n’erano, oggi invece più di un pensiero nelle teste passa. E che ci si voglia far coraggio o no, è questo lo scippo vero.
Aina: lo spirito delle Ramblas
Anni dopo la prima visita a Barcellona Le Ramblas si sono presentate nella mia casa romana con il sorriso meraviglioso di Aina, una catalana che con me ha condiviso appartamento, problemi condominiali, sfoghi privati e discussioni su discussioni sulla voglia di separatismo della Catalogna.
Anche Aina per me è le Ramblas. Perché è stato su questa meravigliosa passeggiata sulla quale in questi giorni abbiamo visto ripetersi le immagini dell’orrore, che ci siamo riviste: più cresciute, più mature.
Io con tutta la mia famiglia, lei con un bavaglino che ancora conservo tra i ricordi più cari in dono al mio secondo figlio nato da pochi mesi. Un pranzo consumato in una trattoria che da lì in avanti sarebbe diventato la mia tappa fissa: Meson Jesus.
Tutto è preciso nei miei ricordi: la tovaglia a quadretti rossi, le due signore in cucina, la loro paella, una serie di disegni fatti da mia figlia nell’attesa tra una portata e l’altra. Era il 2008, la primavera ancora non era sbocciata, eppure per strada scorrevano fiumi di gente, le Ramblas erano un viavai di braccia e di gambe.
Il sole che filtrava opaco tra gli alberi restituiva tutta la potenza delle possibilità.
Dalla mia prima visita era trascorso tanto tempo, ma la garanzia del ricordo sereno aveva tenuto. I colori della pelle, dei vestiti, i suoni degli strumenti più diversi, c’era tutto. Le Ramblas erano odori e colori e spezie, miscugli di etnie, miscele di lingue, spazio libero da camminare intruppando e chiedendo scusa.
C’erano le famiglie…
C’erano le famiglie, adesso le notavo, all’epoca no. Padri e madri con i figli a passeggio, passeggini e marsupi, pause per prendere in braccio e proseguire un po’.
La mente mi corre veloce alla famiglia Gulotta, anche loro erano a passeggio, in vacanza, a divertirsi, a far conoscere il mondo a due figli piccoli, uno nato da pochi mesi. Spazzati via, loro e i loro ricordi futuri da un’arma a forma di camion che ha travolto loro e tanti altri turisti.
E qui mi fermo.
No ai dissuasori. Continuiamo a passeggiare per le Ramblas
Rifletto su questa città che è stata capace di riunirsi in preghiera, celebrando una messa solenne in cinque lingue diverse dentro alla Sagrada Familia, monumento senza porte per eccellenza, perché non finito, non concluso.
Mi concentro su una città in grado di riunirsi e ritrovarsi – in silenzio per un minuto – e nel tifo per un’ora e mezza in occasione della prima partita di campionato del Barca in un Camp Nou blindato. Senza paura, e tutti barcellonesi, a tre giorni dall’attentato costato la vita a quindici persone.
Vorrei bloccare le Ramblas in un ricordo che è il mio. Di luce e movimento, di colore e di vita. Di serenità. Ma non posso.
Oggi che per lavoro ho il dovere di raccontare quello che vedo, è tutto un altro lo scenario che mi si para davanti: sono altre le immagini che mi fissano Barcellona nella memoria e offuscano i miei ricordi; è un altro mondo quello che gli Erasmus di domani si troveranno a conoscere. Mentre penso questo sento arrivare un’aria familiare che ancora percepisco addosso, e la annuso: è una brezza pura, limpida, cristallina.
E mentre osservo ancora una volta – e chissà per quante ancora – le immagini dell’orrore folle, riascolto le parole della giovane sindaca indomita e combattente, Ada Colau: “No ai dissuasori. Continuiamo a passeggiare per le Ramblas, con libertà e amore per la nostra città. Siamo e continueremo a essere una città aperta e solidale”.
Concordo. Viaggiare deve essere un lusso spensierato, torno a pensare. E le Ramblas che ancora voglio ricordare sono queste: senza dissuasori, fioriere, new jersey e cordoni di sicurezza. Senza muri di cinta, ponti levatoi, barriere difensive. E sono quelle che ricordo già.
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