La morte di Mario, che a soli tre anni se n’è andato tra le fiamme che hanno divorato il campo nomadi in cui abitava con i suoi genitori, ci fa domandare quanti siano quattro anni. Se sono tanti, pochi, abbastanza o quelli che servono. Ci fa chiedere se si possono fare tante cose nel tempo che passa e in quattro anni in particolare: crescere, evolversi, migliorare. Perché poi, a conti fatti, quattro anni servono per poi potersi girare e guardare quel che si aveva prima e come si è adesso. Ma capita anche, e questo è il caso, di realizzare che quattro anni passano per dover poi dire che è come se il tempo si fosse arrestato per sempre, insieme alle speranze. Era il 2006 quando a Roma, al campo nomadi di via Gordiani, un incendio divampato nottetempo distrugge il container in cui dormivano insieme Sasha e Liuba, 17 e 16 anni, marito e moglie da poco e che qualche mese dopo sarebbero diventati genitori. Chi è andato al loro funerale ricorda le due bare bianche, uscite insieme dalla chiesa, i mormorii di chi diceva che non si erano accorti di niente ma anche quelli di chi commentava, piano piano, che in quel popo’ di campo non c’era neanche un estintore. Strano. Anche perché quello non era un insediamento qualsiasi: era un campo particolare, quello. Anzitutto perché al suo interno un muro alto e dritto, con tanto di rete e filo spinato segnava un confine preciso tra la parte dei serbi e quella dstinata ai bosniaci. Un dimidiamento portato in sorte, perché quel campo aveva dalla sua tanta brava gente, comprese le molte cooperanti con i servizi del comune che si occupavano di portare i ragazzi a scuola per alfabetizzarli (e integrarli) ma anche un giro di spaccio non indifferente, tollerato per circoscriverlo. Il 15 agosto di quell’anno, al campo c’era stata la visita ferragostana dell’allora ministro degli Interni Amato. Eppure due ragazzini che insieme non facevano 35 anni, ma che pure già erano una famiglia, morivano ustionati senza che nessuno potesse aiutarli. Perché chi aveva provato a spegnere le fiamme si era dovuto aggrappare all’unico filo di speranza che aveva trovato. E questo filo era un tubo di quelli che si usano per innaffiare le vaschette sui balconi dei palazzi residenziali.
Succedeva quattro anni fa. In una Roma che dopo quell’episodio aveva giurato e spergiurato che situazioni del genere non si sarebbero mai più ripetute. Che lutti simili si dovevano evitare. Che le politiche dell’integrazione devono (o dovrebbero) passare attraverso la sicurezza e poi anche attraverso l’ordine.
Oggi piangiamo sulla morte di un bambino di tre anni e sulla vita a rischio di suo fratello di tre mesi. Ma Mario non è morto, come dicono, per una candela accesa e perchè non c’è stato modo di mettere la parola fine alle fiamme che si mangiavano, una dopo l’altra, brandelli di vite da sgomberare. Mario è morto perché abitava in una baracca fatiscente e perché non c’era un estintore in tutto il campo nomadi. Osserviamo due genitori sparire nel nulla dopo la perdita di loro figlio impauriti più dal rischio di quel che potrà succedere che dalla certezza del dolore che li sta per travolgere. Genitori che come la maggior parte dei loro connazionali non vogliono allontanarsi da ritagli abusivo di terra ai confini della città. Questo era sulla Roma-Fiumicino, un frammento del XV municipio in cui le case si sparpagliano sempre di più e da dove di tanto in tanto si alza una colonna di fumo delle ruote che vengono bruciate. E’ così. Che piaccia oppure no, che se ne parli oppure no. Che ogni tanto torni alla mente oppure no. La Roma venuta fuori in questi quattro anni ha l’odore di bruciato di una verità che emerge poco e che quando esplode è incontenibile. E’ quella delle periferie, sofferenti e dimenticate, e dove guardacaso, succede sempre quel che non dovrebbe. Poi dopo si grida al lutto e all’episodio grave. Intanto però. Tra le mani ci rimangono quattro anni trascorsi e, solo a Roma, tre vite bruciate nel sonno. Per non aggiungere i quattro bambini morti a Livorno (2008), i due 14enni carbonizzati: uno a Rivarolo, nel 2002, e l’altro a Milano, nel 2008. Restano queste morti a galleggiare insieme all’impegno preso da chissà chi di un miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie-sociali-abitative delle categorie più disagiate e alla certezza unica che adesso è verbo: “gli sgomberi sono comunque necessari”. Anche se non evitano le morti, anche se non sono la panacea. Ma soprattutto ci obbligano a confrontarci con una realtà internazionale che non può più essere né ghettizzata né solo allontanata. E invece a Roma, la capitale d’Italia, succede che a poche ore dalla tragedia, il Comune è arrivato con le ruspe, ha trasferito circa cinquanta persone del campo in una struttura alla periferia nord, e ha raso al suolo la baraccopoli degradata. Un colpo di spugna, un cancellino sulla lavagna e non ci si pensa più. Con l’unico particolare che “il problema” viene solo trasferito da una periferia all’altra, lasciandoci l’idea di un fenomeno europeo che da oltreconfine riporta alla mente i tempi passati, l’eco sinistra di stermini che ci furono. Noi non abbiamo la possibilità di agire, c’è chi è incaricato dal popolo di farlo, chi è eletto come rappresentante a operare per noi. Ebbene, l’augurio è che queste persone intervengano costruttivamente dando l’impressione di un’Italia civilizzata. Mentre tutti i segnali lasciano intendere invece l’esatto opposto, incoraggiati e incalzati da chi dopo la morte di un bambino di tre anni sa solo dire: “Avanti con gli sgomberi”. Di certo fuori dalla nostra porta di casa non abbiamo in questo momento esempi illuminati da seguire. Mai la Francia che ragiona è sembrata così cupa nel suo agire. C’è voluta la Chiesa a battere un colpo. Speriamo che qualcuno si affacci e ascolti quel che ha da dire. Che poi non è difficile, l’ha detto anche in francese: “sapere accogliere le legittime diversità umane”.
Speriamo solo che la lontananza che abbiamo dalle sue idee migliori non svanisca di colpo come la lucidità smarrita in questi tempi bui. Altrimenti Quattro anni e non sentirli, ecco lo slogan che racconterà quest’Italia alla deriva. Resta il fatto però che Mario, di anni, ne aveva solo tre. Ed era uno di quei bambini a quali l’ex prefetto della capitale, Carlo Mosca, nel 2008 aveva negato l’umiliazione delle impronte digitali pagando per la sua scelta il prezzo della carica che ricopriva. Ma da allora è passato tanto tempo. E qusto sì che si sente. Eccome.
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