Cecilia Mangini è una ragazza di 87 anni che negli occhi e nella voce ha la potenza rivoluzionaria di chi non ha paura. Nelle stesse ore in cui Roma veniva messa a ferro e a fuoco da chi a modo suo cerca di esprimersi, lei a Pordenone – solo con le parole – incendiava una sala piena, emozionata e ancora stordita dalla proiezione del suo documentario girato on the road con Mariangela Barbanente: “In Italia ci illudiamo di avere tre poteri, ma quello legislativo è in appalto a badanti, cuochi, camerieri e colf del presidente di turno. Anche di quello attuale”.
E’ un attimo. Quello che basta perché in sala si prenda coscienza e ci si ritrova catapultati nella certezza che chi crea non lo fa a caso né invano. Un attimo, e un documentario che sulla carta doveva nascere come viaggio attraverso le metamorfosi della Puglia (dal suo immobilismo rurale ai progressi della modernità attraverso la fabbrica) e che nella pratica risulta una metafora dell’Italia in declino e a ritroso, la discesa negli inferi di un paese e delle sue illusioni bruciate, è un attimo e d’un tratto tutto si trasforma in un trampolino per riflessioni che toccano i nervi scoperti di un popolo tradito.
Sono da poco passate le 22 quando i titoli di coda scorrono e le luci in sala fanno vedere gli sguardi emozionati di chi ha scelto, in controtendenza rispetto alle mode, di intraprendere, con un documentario, un viaggio per l’Italia e le sue storture.
Tutto documentato, tutto visibile. Faticoso realizzare come la Puglia, qui una parte per il tutto, sia la copia carbone di un miglioramento negato. Si vedono, in bianco e nero, le realtà rurali e contadine; si tocca con mano la speranza in un futuro evoluto. E si riscopre, con l’amaro, come la stessa fabbrica (l’Ilva di Taranto, il Petrolchimico di Brindisi) che doveva dare riscatto e forza, ha tradito il popolo e gli sta dando la morte. Condannati. Come in Campania, come a Marghera. Come ovunque la classe politica non si sia imposta e dove si è costretti a sperare in una magistratura che si sostituisca alla classe dirigente.
Sullo sfondo, i filmati dell’epoca (molti tratti dai precedenti lavori della Mangini, i testi di Pasolini) che proseguono nel digitale di oggi e le riflessioni di chi parte in causa è stato.
Un lavoro che va assorbito su due piani: tecnico e di contenuti. Il primo, con i suoi tagli vivi, la visione dei neonati nelle sale di rianimazione dell’ospedale di Brindisi, l’utilizzo di documentari del passato che hanno il pregio di farci rientrare nel tempo dalla porta del passato e di farci attraversare la storia fino a tornare ai giorni nostri, quelli del digitale. Raffinatezze, atti di coraggio stilistico che non sono poco.
E poi i contenuti. L’analisi spietata e dolorosa di una condizione di rassegnazione che non può essere accettata né subita. Le “disuguaglianze atroci dell’Italia”, che portano Cecilia a citare il Fortini de “I fascisti in camicia bianca”, che non sono diversi da quelli vestiti di nero. “Bisogna essere francamente contrari a tutto quello che succede e dirlo”. Memorabile questo passaggio, sullo sfondo le onde del mare inquinato di Brindisi, all’orizzonte i pennacchi fumosi del Petrolchimico che ha portato a “morti senza colpevoli”.
Un regalo all’Italia, questo film. Nato da un pensiero covato e ben attuato da Mariangela Barbanente. Pugliese anche lei, stesso paese e stesso lavoro di Cecilia. Occhi diversi, identica sensibilità nel voler raccontare un’Italia sull’orlo di un baratro in cui però il coraggio deve essere quello dell’ottimismo. Dice Cecilia: “E’ passata l’idea che le conquiste fatte potessero essere sgretolate. I poteri forti hanno puntato a destrutturare. Si è partiti da Craxi, che ha toccato lo statuto dei lavoratori. Non un intervento massiccio, ma il fatto stesso che sia accaduto ha reso possibile aprire un varco. E si è arrivati al punto di pensare di ritoccare la Costituzione. Una lenta marcia di avvicinamento al pericolo”.
Si resta zitti a riflettere se sia vera o no la considerazione che tutto questo è stato possibile perché spalmato su trent’anni. Un processo di deterioramento ben studiato dall’alto e interiorizzato dal basso. E ci si domanda se davvero, fosse successo in tre anni ci sarebbe stata la rivoluzione. La verità è che non lo sapremo mai. Ma la verità è anche l’immagine di quel carrubo che chiude il documentario. I carrubi fanno i fiori che servono da cibo ai somari. I somari in Puglia non ci sono quasi più e anche i carrubi sono scomparsi. Tranne uno, splendido, proprio nella piazza di Brindisi, città vilipesa e offesa. Non tutelata né dalla legge né dalla politica. Accanto al carrubo ci sono due figure, il futuro e il passato. Non va aggiunto altro, perché quel che andrebbe detto, è detto là. E va visto.
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