Lavoro, GEFRAN chiama Italia

A Presa Diretta l’affresco di un mondo del lavoro possibile. Anche qui

Era tardi quando la voce di Iacona è entrata dentro a una sera come tante. Finalmente, mi sono detta. E sono rimasta lì, in cucina, inchiodata a un racconto garbato e affilato, fotografia impeccabile di un’Italia possibile.

La storia è quella della GEFRAN, azienda del lago d’Iseo leader nella produzione di sensori e non solo: dalla scommessa di due fratelli che con 80 milioni di lire le hanno dato il via a multinazionale uscita a testa alta da una crisi che nel 2015 l’aveva messa in ginocchio e dall’anno dopo di nuovo con i dati in ascesa.

Storia della GEFRAN, sì, e del suo successo, ma solo apparentemente. Perché attraverso un abile percorso di interviste tra i tanti dipendenti che la popolano e che le danno vita, Iacona ci offre la possibilità di toccare con mano la più antica delle verità: sono le persone che fanno i posti, e non viceversa.

Capitale Umano

Non a caso il titolo scelto per questa inchiesta, CAPITALE UMANO, gioca per scarto su un ossimoro solo apparente: la distanza tra i concetti di quantità e di qualità. E li unisce secondo il minimo comun denominatore dell’interesse che si fa comune quando in ballo ci sono i valori. Di più: quando in ballo c’è la visione.

Gefran - Capitale UmanoAttraverso il racconto della GEFRAN, del suo welfare aziendale: abbonamento ai mezzi, baby sitter, aiuto agli anziani, buoni pasto, buoni per il cinema – che i dipendenti possono scegliere di incrementare convertendo il loro premio di produzione -; del suo sguardo ai bisogni fisiologici di miglioramento di posizione all’interno di un contesto; dell’occhio al progresso per cui l’aggiornamento è necessario ma non lo è la serializzazione del lavoro…, Iacona e la sua squadra ci hanno restituito l’occhio su un’armonia produttiva non perché in Italia questa realtà c’è, ma perché ci sia. Perché ci sia ancora, e di nuovo.

Una lezione pratica, nell’era del virtuale e delle leggi sul lavoro che perdono di vista l’uomo nei suoi bisogni primari. Che sono, inutile nasconderselo, anche quelli di migliorare: per sé, per gli altri e per – udite udite – non annoiarsi. Ebbene sì. Non annoiarsi. Perché ci riesce bene quel che ci diverte fare, quel per cui siamo portati, naturalmente e per istinto. Ecco perché una delle più belle testimonianze raccolte ieri da Presa Diretta è stata quella dell’impiegata che raccontava di essere alle prese con un aspetto nuovo del suo lavoro, stimolante e arricchente. “Ho chiesto all’azienda di farmi provare – raccontava sorridendo la giovane – perché volevo cambiare e conoscere un nuovo settore”.

Job Rotation

Il desiderio del nuovo e l’impegno, insieme. Quanto è suonata lontana la GEFRAN in un mondo del lavoro in cui i cambi di settore, di ruolo e di lavoro sono imposti d’ufficio e vissuti dai destinatari come punizioni corporali; in cui nessuno si schioda dal suo posto se non per un miglioramento e in cui appare strano e offensivo chiedere di conoscere altro?

Eppure sono stati proprio questi valori condivisi: curiosità, stimolo, riconoscimenti di merito e avanzamenti professionali a rappresentare il cardine del progresso di un’azienda che oggi legge nella rinascita successiva alla crisi del 2015 il suo punto di forza e che non a caso (parole della Presidente) vede i suoi dipendenti come un dono che “non è gratuito, costa eccome, ma è un investimento”. Perché, intendiamoci, far avviare a un dipendente un nuovo lavoro è un costo. Significa dover formarlo, investire.

I maghi dei rinnovamenti nelle aziende la chiamano job rotation. E direbbero, con scherno: che novità c’è? Ma sono maghi, appunto. E non vivono nella realtà, ma nel loro iperuranio. Saprebbero altrimenti che se questa magia oltre a proporla la applicassero, nei posti di lavoro si conterebbero meno vittime di noia e di frustrazione. E un numero sicuramente maggiore di persone meno fossilizzate nel fare un lavoro che è sempre lo stesso da decenni.

Categoria: Attualità

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