Sono belli. E forti. Sono giovani. In una parola sola, sono potenti. I giovani, che uno dietro l’altro, uno accanto all’altro, uno appiccicato all’altro hanno caratterizzato questi giorni di lotta civile hanno un unico comun denominatore: una bellezza che inchioda chi cerca di avvilirla. Hanno visi chiari, capelli scomposti, le ragazze un trucco appena accennato che fa a pugni con una fanciullezza che si vuole a tutti i costi lasciare a casa. Questa protesta che avanza, che è come un terremoto perché niente, dopo, sarà come prima ma che allo stesso tempo non è un sisma perché non vuole distruggere ma edificare, è quanto di più bello ci sia stato regalato in questo momento buio e cupo della nostra storia italiana. E’ il senso che ancora si vuole lottare in un paese sconquassato dal pettegolezzo di stato, messo in mostra per non parlare di fatti concreti. Ci vorrebbero spazi e pagine per poterla raccontare, questa protesta pacifica e disturbata da un’organizzazione che nulla ha avuto a che vedere con il mantenimento dell’ordine. Perché questi ragazzi, l’ordine se lo sono dato da soli. In barba a chi li vuole sterili e nullafacenti, teledipendenti e annoiati, bulli o prevaricatori. Non che questa genia non esista. Saremmo ipocriti e parziali. Ma chi era in piazza il 30 novembre, armato di libri e striscioni ha chiarito subito che se la posta in gioco è il proprio futuro, a metterlo in vendita non ci sta. E avrebbe voluto sfilare. Pacificamente, ordinatamente. Creando un unico grande corteo che però, almeno a Roma, non si è mai potuto organizzare. Il perché lo hanno raccontato i fatti, le fotografie e le immagini trasmesse in vario modo in tv. La capitale bloccata e blindata, ha potuto ospitare solo mini raduni sparsi qua e là. Con i partecipanti che si cercavano e che si telefonavano, “Tu dove sei?”, “Ce la fate a raggiungerci?”. Cortei frammentati, proteste dimezzate. E fare a tocchetti una manifestazione significa toglierle, nei fatti, il potere che ha in dote dalla nostra Costituzione. Manifestare liberamente il proprio pensiero il 30 novembre non si è potuto. Chi scrive era in mezzo agli studenti quel giorno. E può testimoniare che il clima non era quello delle azioni violente o delle provocazioni da raccogliere. C’erano studenti medi, professori e ricercatori. Alcuni con i capelli bianchi e quella pacatezza che solo l’età può garantire. Di sicuro non c’era l’arroganza, fatti salvi cori di rito che però hanno il peso di voci alzate al cielo. Ma non è di una Roma blindata che parleremo ora, sebbene tanto ci sarebbe da dire. E lo sanno bene le centinaia di cittadini e contribuenti che dopo una giornata di lavoro si sono visti negare anche il permesso di tornare a casa con i mezzi pubblici perché le strade erano chiuse al traffico e al transito dei mezzi. Rimarrà a lungo impressa nella memoria l’immagine di via del Tritone piena di lavoratori che finiti i propri turni faticosamente risalivano la strada, in un mano la ventiquattrore, nell’altra l’ombrello per trovare riparo da una pioggia incessante. Sotto i piedi, l’asfalto allagato; sopra la testa il cielo cupo e grigio.
In questo clima, che non è solo meteorologico, si protestava e si continua a protestare. Da Roma a Milano, da Palemo a Pisa, dove per la prima volta nella storia italiana è stata occupata la prestigiosa Normale e dove le cosiddette eccellenze si sono unite solidali agli universitari di tutt’Italia. Che cosa bisogna ancora dire, che cosa c’è ancora da fare per dimostrare che c’è una luce dentro le teste da sempre ritenute calde dei ventenni? Il gioco di far vedere solo gli scontri e le provocazioni non tiene, questa volta. Va tenuta in conto l’esasperazione e il senso di frustrazione estremo che c’è in un paese che per più di tre mesi ha sentito parlare di una casa a Montecarlo, per altri tre ha solo visto e immagazinato immagini morbose di un delitto da risolvere solo in sede giudiziaria, che vede sfilare e intervistare in tv prostitute con l’unico risultato di far lievitare il loro prezzario. Cose tutte delle quali non interessa in senso stretto niente a nessuno. Che servono a distogliere l’attenzione dai fatti concreti dei quali dovrebbe renderci conto chi comanda. Realtà che se non alimentate sarebbero dimenticate il giorno dopo, se non mezz’ora dopo. E che invece sono lì, in prima fila. Mentre in Parlamento si dà bellamente il due di picche alla possibilità di far convergere 20 milioni di euro al miglioramento del Paese.
Ma chi autorizza una simile barbarie? Chi fa sì che le priorità vengano messe in secondo piano rispetto agli interessi della politica? Non i cittadini e non gli italiani di certo, se è quasi un mese che con alterne fortune chi questo paese lo deve ereditare non fa altro che ripetere di non volersi far rubare il futuro. E per questo scende in piazza. E per questo cerca di sfilare. E per per questo manifesta il proprio dissenso. Ma nessuno ascolta, perché tra quella strada bloccata e quel palazzo così in alto c’è la distanza di un vuoto che non si colma. E che anzi, trova la sua spiegazione nell’atteggiamento di una classe politica che quando era ormai sera e la votazione per il via libero della Camera alla riforma dell’Università ultimata, scappava – letteralmente – dalle vie secondarie del palazzo; fuggiva – in barba a tutti i microfoni in attesa (in genere sempre così smaniosamente cercati) – su comode autoblu che quella via del Tritone la potevano percorrere senza problemi.
La pioggia, chi scrive l’ha capito bene quel giorno, non è un problema di tutti. Ma per far sì che non lo sia più per nessuno bisogna sapere chiaramente dove si vuole andare. E chi era in piazza quel giorno lo sapeva bene.
E qui si è vista la bellezza, nella spregiudicata testardaggine di voler perseguire i propri sogni e nell’ostinata difesa dei propri diritti. Quello al proprio futuro anzitutto. Una bellezza, nei visi, nelle movenze, nei libri esposti e portati in trionfo, che ha tenuto testa al suo opposto che non si è voluto mostrare, proprio come la Bestia della splendida favola. Intimorita e imbarazzata di fronte alla forza. La Bestia nel suo castello arroccato e triste, immobilizzato e senza futuro, ha evitato di confrontarsi con l’esterno e con una realtà Bella che avrebbe potuto – se ascoltata – aiutarlo e magari anche sbloccare il sortilegio che avvolge questo paese triste e abbrutito.
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