Conservo, nel cassetto della mia scrivania, almeno due cassette da sessanta minuti l’una, sul campo nomadi di via Appia. Era una mattina di settembre, erano le sei di mattina quando io e il mio collega telecineoperatore Marco Petruzzelli, ci davamo appuntamento poco distante da lì, a Quarto Miglio, per riprendere, prima che non ci fosse più niente, lo sgombero del campo. Era il 2006. E i nomadi, già allora, dovevano scomparire, spostarsi. Dove, non si sapeva.
Ho un ricordo molto vivo di quella mattinata e del lavoro che ne venne fuori. Le immagini raccontavano, meglio di tante parole, che le vite disperate lasciano tracce. Le vite agiate, possono solo vantare bei ricordi.
Le tracce che trovavamo noi erano batterie di macchine rubate, materiale di risulta, rame sottratto alle ferrovie locali o regionali, fornelli da campeggio abbandonati senza vergogna assieme a coperchi di pentole e tegami. Vicino a una baracca con le tegole ondulate verdi c’era anche un tavolo apparecchiato con una di quelle tovaglie plastificate a fiori. Gialla, come il sole che ancora doveva sorgere e che già si capiva, avrebbe regalato una giornata torrida, per quanto settembrina. Di quel campo ricordo molte sfumature e una, tra tutte, che mai dimenticherò: lo sguardo con il quale sorpresi il mio collega a guardarmi mentre fissavo senza muovermi una bambolina senza piedi. Era incastrata tra una rete e un materasso riversi a terra, la faccia in giù e le braccia allargate come un cristo in croce capovolto. La osservavo e pensavo che da tutti i freddi ci si può riparare ma da certe assenze no. E poi ho anche pensato che senza piedi non si va da nessuna parte. Alzai gli occhi, il sole tiepido accompagnava questa carovana sudicia verso dei grandi pullman. I vigili urbani aiutavano come potevano, chi più chi meno.
Un passo dopo l’altro queste famiglie lasciavano i loro tetti di fortuna senza sapere dove sarebbero andati e senza sapere che lì, proprio lì sarebbero tornati. Perché gli sgomberi, perlomeno per un certo periodo, a Roma sono stati così. Era difficile ammetterlo, anche per noi che eravamo lì, presenti curiosi ficcanaso nelle vite cacciate degli altri.
Ma come mai sono così pochi?, chiese qualche giornalista a un assistente sociale che stava lì. Perché si sapeva, e tanti se ne sono andati di notte. Funzionano così, gli sgomberi: che si sanno prima. E che resta solo chi non si sbriga o chi non fa in tempo.
Quel giorno di fine estate il campo di via Appia venne svuotato. Erano ancora lontani i tempi dei decentramenti, dei campi attrezzati, delle politiche anti-rom, delle impronte digitali proposte e rifiutate da un signor prefetto, Mosca, che pagò con l’allontanamento il suo rifiuto a stigmatizzare un popolo. Eppure, in quel giorno di fine agosto, il campo di via Appia venne svuotato. Le ruspe rasero al suolo le baracche – le immagini che conservo lo registrarono – distrussero i ricordi di chi ci aveva vissuto, frantuamarono gli oggetti che erano stati usati e che avevano memorizzato, loro sì, le impronte digitali.
Scomparve tutto, ma come nelle migliori tradizioni italiane, per riapparire e prendere fuoco in una notte gelida di febbraio. Quando il sei diventa sette e quando chi può dorme al calduccio i suoi sogni prefabbricati ma non abusivi.
Non penserò mai muoiono così quattro bambini, quattro fratellini disperati e infreddoliti. Ma muoiono lì. Perché è questo che come cittadina italiana di più mi indigna: che muoiono lì. Lì dove non doveva esserci più nessuno da 5 anni. Lì dove si era detto che essendo zona vincolata non si poteva costruire ma si sarebbe comunque trovato il modo di valorizzarla. Lì, dove non era più pensabile che potesse esserci nessuno perché un paese che sgombera deve anche destinare. E invece no.
Il risultato, di una politica di consensi facili e mediatici, di piani regolatori che non si concretizzano e che non prevedono più l’edilizia popolare, preferisce ammassare anime, corpi ed escrmenti sotto ai cavalcavia. E lì lasciarli. Prima o poi qualcuno ci penserà. Roma è ancora in attesa della delibera che l’ex prefetto Serra aveva garantito per “la sistemazione in alloggi sicuri dei rom di saxa rubra, previo il loro allonanamento dalla zona a ridosso della stazione del treno extraurbano”. Un paese senza memoria che la ritrova solo quando una tragedia somiglia troppo a un’altra della quale si era detto “non dovrebbero mai accadere situazioni di questo genere”. Come questa dell’incendio al campo nomadi di via Appia, il campo nomadi che non doveva esistere più da un lustro, che somiglia troppo a quella di Marius, morto a soli tre anni per una candela accesa nella baracca in cui viveva con i genitori. E poi Sasha e Liuba, 17 anni lui e 16 lei, morti tra le fiamme quando da poco erano sposi e tra non molto sarebbero stati genitori. Tre vite bruciate nel sonno solo a Roma. Per non aggiungere i quattro bambini morti a Livorno (2008), i due 14enni carbonizzati: uno a Rivarolo, nel 2002, e l’altro a Milano, nel 2008.
Tutti cadaveri che diventeranno numeri per le statistiche, mentre la politica parla a poche ore dalle tragedie e chiede più poteri e libertà di agire contro la burocrazia. Vedremo quanto durerà, senza che nulla accada. Perché poi lo risentiremo, questo appello. E poi lo risentiremo ancora. Insieme alle urla di una madre che si sveglia una mattina e che dei cinque figli che aveva ne può abbracciare solo una. Tramortita e dondolante di fronte a un dolore che la sopraffà mentre un capo dello stato più anziano e saggio che mai si siede su una sedia fuori dall’obitorio e ascolta, senza parlare, e a tratti accarezza una guancia ruvida e resa dura dal dolore più inspiegabile. E’ l’Italia che si scusa, e ne prendiamo atto. Ma è la dimostrazione che in certi casi non si va da nessuna parte anche con un piede solo, la gamba slanciata e un tacco che, davvero, non riesce a farci sentire in alto.
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