Tra qualche ora ricorderemo il quarto anniversario del terremoto che ha ridotto in coma l’Abruzzo e l’Aquila. Riascolteremo i rumori delle ambulanze e rivedremo i palazzi diroccati, le strade spaccate in due dalle potenza di una magnitudo Richter pari a 5.8. Diremo indignati che dal 2009 al 2013 non si è mosso niente e che la politica si è dimenticata di questo spaccato d’Italia fiero e prestigioso che in silenzio fa e continua a fare. Che con forza si spinge avanti da solo. Che ostinatamente chiede di tornare a casa sua: un popolo che dopo ogni terremoto è sempre tornato dentro le mura della sua città per farla rivivere, persino dopo quello del 1703 che contò più di diecimila vittime.
Ho trascorso nell’aquilano almeno un mese di ogni estate della mia infanzia, i miei nonni paterni sono abruzzesi. La casa c’è ancora, ma è inagibile. Dentro c’è quello che è stato accumulato nel corso di almeno tre generazioni. Oltre a ricordi, foto, oggetti. Stoviglie e tazzine nella credenza, lenzuola e coperte negli armadi. Come sempre. Tutto in attesa, sospeso in un limbo che non si sa quando finirà, se finirà.
L’elmetto non basta per stare tranquilli lì dentro, il geometra e il perito del comune avevano parlato chiaro durante il primo sopralluogo. Dopo il sei marzo 2009 non sono mai tornata dentro a quella casa. Il ricordo che ho delle mura che mi hanno visto crescere è vivo: le camere da letto, la sala da pranzo, la cantina in cui a turno si andava a prendere il vino dalle botti, l’orto, il garage.
Le mie amicizie più solide, che per fortuna ci sono ancora tutte.
L’Aquila era la meta di quando si era diventati un po’ più grandi. Pomeriggi organizzati ad arrivarci in corriera per fare un giro, due passi, un gelato. Poi di più. Piazza Duomo, la Fontana delle 99 cannelle. E poi i tanti locali, bar. Conosco questa città bene. La bellezza del suo centro storico, la bruttezza dei suoi vicoli maleodoranti e poco raccomandabili, come quello del Rex.
Luoghi nei luoghi, per chi li conosce. Che mi fanno venire da sorridere quando oggi sento chi ci va per “raccontarla”, l’Aquila. In massima parte persone che l’hanno conosciuta dopo.
Sarei potuta tornarci anche io, e piantarci le tende.
Invece mi sono sempre consapevolemente sottratta: non vedere è non sapere. D’altra parte sapere troppo non permette di raccontare pulito.
Poi anche questo oblio si è interrotto.
Sono tornata nei vicoli che conosco, tra le strade che per anni ho frequentato coperta dalla corazza di un
microfono e di una telecamera. Tutelata dalla consapevolezza che chi deve raccontare non può commuoversi. Una forza anche quella.
Per dovere, sono entrata dentro all’Hotel L’Aquila. Perché per me di questo si è trattato e così la vivo ancora oggi: ho camminato come un’ubriaca dentro al set di un film. Scenario, un mondo bombardato con il silenzio che ti avvolge e ti strozza lentamente mentre tu, in qualche modo, devi riuscire a venir fuori.
Non so che faccia avevo, non lo so che cosa ha visto nei miei occhi chi mi era con me. Ma so di certo – e non dimenticherò – il rumore amplificato e sinistro dei miei passi lungo i vicoli sui quali correvo e saltavo con le All Star color crema. E quella sensazione di incredula impotenza che mi ha accompagnato per tre giorni e tre notti.
Con la mia macchina fotografica ho scattato decine di foto all’umanità sparpagliata messa in mostra senza pudore dai muri spallati: bagni con gli accappatoi ancora appesi vicino alla doccia, spazzolini da denti lasciati sui lavandini chissà da chi, libri, vestiti, pentole, stoviglie. Armadi, letti, tavoli. Finestre aperte su un case che dentro sono crollate, palazzi che si tengono in piedi con i tubi innocenti. Foto, foto, foto. Una, due, dieci, quaranta. Per mesi le ho portate con me, nella memoria del cellulare – senza svuotare la memoria – e in quella della macchina fotografica.
Per mesi ho conservato il diritto a portarmi appresso la vita rubata degli altri con la scusa di non dimenticare.
Per quattro anni l’Italia ha riproposto il dolore e la distruzione dell’Aquila.
Personalmente, qualche giorno fa ho cancellato tutte le foto dalle mie memorie.
E ho interrotto questo oblio, il mio.
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