Due parole su un fatto che ci riguarda tutti da vicino: il rapimento di Daniele Mastrogiacomo, giornalista di spessore e uomo coraggioso. Cronista di quelli che ce ne sono sempre meno, da tenersi stretti.
Di quelli che se leggi, impari.
Di quelli – merce rara ormai – che lavorano per noi. E non per loro stessi.
Diciamo subito che aspettiamo il suo ritorno. L’Afghanistan, d’altra parte, per due volte ci ha tolto e per altrettante restituito chi mette la sua opera al servizio degli altri: Clementina Cantoni (Care International) rapita a Kabul e tenuta ostaggio per 24 giorni e Gabriele Torsello, freelance, sorpreso da una banda di criminali mentre raggiungeva Kandahar e liberato dopo 23 giorni. Speriamo che Mastrogiacomo riassapori la libertà in un tempo più breve.
Detto questo, la vicenda dell’inviato di Repubblica ci invita a una riflessione sul senso di questo mestiere, oggi. Un mestiere, non un lavoro. La differenza non è poca: un mestiere lo impari, lo vedi crescere tra le mani e nei casi migliori diventa artigianato. Un lavoro invece si accetta. Un lavoro serve. Puoi anche non amarlo.
Il dubbio è che oggi il giornalismo, mestiere affascinante e faticoso sia molto affaticato: sembra che non ce la faccia più a rispondere al suo ruolo. Che stia via via disconoscendo se stesso. Troppo soggiogato alle logiche partitiche, politiche, agli interessi di parte o individuali. Non è una novità. Ormai è un’emergenza. Difficile non ammettere che parte della responsabilità di questo declino appartenga proprio ai giornalisti stessi. Triste dirlo, ma è così. Ammetterlo è fastidioso. Capire invece, da dove nasce questo appiattimento pressoché totale, può essere utile.
E si torna inevitabilmente al discorso della serietà. Non parliamo qui di bravura o di capacità. Ma di serietà sì. E questa in genere va a braccetto con la professionalità. Adesso la domanda da porsi è: serve la professionalità? Fa comodo la serietà? O tutto sommato la cialtroneria imperante e la sciatteria frettolosa sono più agevoli e meno rischiose? Buone le seconde, purtroppo. Un giornalista serio è un rompicoglioni: a tutti i livelli, si badi bene. Sia che si occupi di cronaca locale sia che tratti la grande politica estera. Soprattutto, un rompicoglioni rompe i coglioni in modo bipartisan. E una telefonata dopo l’altra (“non mandatemi quello, però…”), piano piano finirà a occuparsi di situazioni minori. Fino a quando, delle due l’una: o getterà la spugna o si allineerà. Anche qui, buona la seconda.
Ed ecco allora che meno strutturato è, il giornalista, più comodo fa. Meno contrattualizzato è, più manovrabile sarà. Di certo non si può pensare di imbeccare un serio professionista chiedendogli di dare voce a questo o a quello. Perché il serio professionista ti risponde che lo sa lui chi deve sentire. E risponde così sia al superiore sia all’addetto stampa.
Così si spiega anche come mai i giornali pullulino di aspiranti giornalisti con molta volontà e senza un contratto serio. Ma mentre prima – qualche anno fa – il prezzo da pagare per l’accesso alla professione era tanto olio di gomito e una gavetta pur giusta, adesso è anche quello di una forte ricattabilità. L’alternativa è che al posto di chi si rifiuta c’è subito pronto e disponibile un altro precario. I giovanissimi lo sanno, i capi lo sanno e lo sanno soprattutto gli editori. Sordi di fronte a un contratto alla data di oggi scaduto da 737 giorni. Mai un precedente del genere nella storia del giornalismo italiano.
La gravità di questo ritardo tanto sconcertante quanto avvilente è non tanto il disagio economico: i giornalisti, tutto sommato, non fanno parte delle categorie più svantaggiate. Il nocciolo della questione è la mano libera che gli editori sentono di poter avere su uno strumento – l’informazione – che diventa sempre meno tutelato e quindi applicato in maniera progressivamente più selvaggia.
Il problema serio è che chi ha veramente qualcosa da perdere in tutto questo gioco al risparmio sulla pelle degli altri (dei giornalisti: vilipesi e dei lettori: non rispettati) è proprio l’esercito delle nuove leve. Futuri inetti del mondo dell’informazione che pur di tenersi stretto un contratto perdono di vista la spinta motrice che dovrebbe essere alla base delle loro scelte professionali: la libertà.
Commenti