7 gennaio 2009, mancano pochi minuti alle cinque del mattino. Davanti, le prime pagine dei giornali. In mostra ci sono Gaza, la guerra dei grandi e la morte dei piccoli.
Soprattutto c’è una manina che sbuca dalle macerie, la terra che è entrata nelle unghie non uscirà più. Perché si è sommata ad altra terra: quella che ricopre completamente il cadavere del bambino. Una foto che ha fatto il giro del mondo. Che qualche giornale, come il Corriere, decide di mettere al proprio interno, che altri, come Repubblica, decidono di servire in prima pagina. Non cambia la sostanza: “La notizia è ciò che nessuno vuole darti”, mi disse una volta un collega della carta stampata. “Il resto – aggiungeva – è solo pubblica relazione”. Aveva ragione. Lo penso oggi più che mai. Quella foto e le altre che sono state pubblicate non sono una notizia. Sono immagini sensazionali, questo sì. Raccapriccianti e dolorose, certo. Vere, sicuramente. Ma non sono una notizia: non a caso tutti le hanno pubblicate. Chiediamoci, anche quelli che spiegano perché hanno dovuto pubblicarle, se sarebbe stato adottato lo stesso metodo nei confronti di foto lesive dell’immagine – ad esempio – di uno dei tanti nostri politici. Siamo in Italia, ricordiamocelo. Qui non si muove una foglia – giornalisticamente parlando – se il suo movimento porta con sé anche quello dell'”ordine precostituito”. E allora perché spacciare scatti che fanno sobbalzare (e fanno sobbalzare, fidatevi) per foto da “dover” dare all’opinione pubblica, immagini talmente importanti da non poter risparmiare ai lettori il supplizio dell’occhio, pena l’incappare nella censura. Dell’occhio, specifichiamo, perché l’anima è comunque lesa dal sapere che una scuola con dentro centinaia di bimbi che cercano rifugio diventa un tiro al bersaglio. La notizia, se di questo si vuol parlare, c’era comunque.
D’altra parte suona quasi come una excusatio non petita il commento affidato alla penna di Sofri che ci motiva fino all’esplicita coppia di righe del finale la necessità del mostrare a tutti il dolore degli altri: di questo padre disperato, inginocchiato davanti ai piccoli corpi dei suoi figlioli o – ancora peggio – il volto esanime di una bimba che fa capolino dalle macerie, la bocca spalancata, nera. In ogni caso vanno pubblicate, leggiamo. E ci permettiamo di chiederci perché è necessario specificarlo, se era ovvio che così fosse. In ogni caso vanno pubblicate. Perché? A chi serve? A noi no. Come non ci servono i dettagli scabrosi e irrispettosi della cronaca nera e come non ci serve che le televisioni vadano a infilare le telecamere ai funerali dei morti ammazzati. Ma prima forse questo paese dovrebbe anteporre il decoro alla logica del profitto. Solo dopo saranno possibili alcuni ragionamenti. E non si fa questo discorso per debolezza di stomaco, ma perché si è saturi di vedere spacciata la (sacrosanta?) necessità di vendere i giornali con l’imperativo morale di non dover nascondere la verità. Per favore. Ogni giorno chi fa questo lavoro nasconde – per i motivi più diversi – centinaia di verità e lo sa. Quindi se forse di una foto si ha bisogno è di quella, il più nitida possibile, della realtà che viviamo. Ma anche questo sembra difficile. Perché come ti muovi vai a toccare il nervo scoperto di chi si risente.
E così si ritorna lì, davanti a una manina inerme. E ci sono i pensieri che corrono veloci e che fanno similitudini senza più senso: se una mano tesa è una richiesta d’aiuto, una manina accasciata che nessuno può più stringere che cos’è? E poi la mano tesa è il simbolo della pace: e allora qui a che gioco si gioca?
I bambini ce l’hanno, sì, la terra dentro alle unghie ma è materia viva come la loro vivacità.
Invece quella mano, quella manina lì, chi l’ha osservata lo sa, è il simbolo della resa. Di noi tutti un po’, dei signori della guerra sicuramente e di chi ancora si domanda se bisogna pubblicarle o no certe immagini ancora di più.
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