Nell’opera di Nakano l’atto rivoluzionario dello scatto:
riempire il vuoto con il ricordo
Non soddisfano mai, le foto di famiglia, spregiudicato tentativo di bloccare il tempo facendo credere che tutto vada bene, con sorrisi, pose studiate, bottiglie e bicchieri leggermente spostati perché fanno disordine, capelli messi bene, tre tentativi perché al primo si guarda altrove o l’occhio è mezzo chiuso. Le foto di famiglia sono questo ma possono essere anche molto altro come nel caso del film di Ryota Nakano, un piccolo gioiello distribuito il giusto e arrivato in Italia in ritardo rispetto al 2020, anno di uscita. Un’opera basata sui libri fotografici “Asadake” e “Album no Chikara” del
fotografo Masashi Asada, che ottenuto un grande successo con una foto di famiglia per il progetto di diploma della scuola, finirà con il realizzare una serie di scatti familiari che daranno vita a un album che vincerà un premio importante.
Storia di una passione che si trasforma in lavoro, sì. Ma soprattutto storia di un amore trasferito in linea diretta dalla testa all’occhio, quel terzo canale in più che consente a uno scatto di portare alla luce quello che gli occhi degli altri non vedono né potrebbero mai vedere.
Serve a questo l’arte, penso. Sia essa la parola scritta, la pittura, la scultura, lo spunto indagatore di chi va oltre e a fondo.
Mentre scorrono i titoli di coda, accompagnati da quelle stesse foto che hanno costituito la struttura della narrazione, emerge in tutta la sua pienezza il disegno del regista: ogni opera ha un percorso, una storia, una genesi che trae sempre e comunque linfa e ragione dalla famiglia. E se l’Ottocento l’ha vista come dimensione di distanze e di rispetto,
se il Novecento l’ha destrutturata rendendola terreno di conflitti irrisolti, il nuovo secolo – che l’ha demolita evidenziando come intorno al tavolo e ancor di più dentro al letto si seminino le basi di silenzi ostili e incomprensioni radicali, questo film restituisce la visione della famiglia come nido ancora possibile, rifugio sempre aperto, fortino dei sentimenti la cui serratura non fa difficoltà ad aprirsi se solo si accettano rischio, leggerezza e si lascia fare. In questo delicato capolavoro nipponico non passa inosservato il ruolo rivoluzionato della coppia, la conversione dei ruoli di moglie e marito pur nella salvaguardia delle loro rispettive identità. Ma va considerato anche il rispetto che non viene mai meno tra i due, il rispetto che è solco di ogni edificio solido, quando in questa storia la madre del protagonista – forte di un’apparente superiorità sociale – minimizza il suo impegno lavorativo rappresentandosi davanti alla famiglia semplicemente come madre (“Evidentemente sentivate la mia mancanza, se tutti e tre siete corsi insieme all’ospedale”). Sembra niente, ma in realtà si sta rileggendo la definizione di famiglia, a partire dalle sue fondamenta.
Sempre notevole l’occhio dei giapponesi nel cogliere le sfumature e nel restituire con i fatti concetti che la filmografia occidentale affida a esternazioni evidenti. Torna in mente “Ritorno a Seoul”, del 2022, scritto e diretto da David Chou.
Pellicola di pochissime parole che ti tiene incollato fino alla fine, fino a quando la 25enne Freddie, adottata e che vive in Francia, decide di tornare in Corea del Sud per cercare i suoi genitori biologici. Sarà grazie a un dettaglio finale sul quale la camera indugia a lungo che capiremo i legami, la trasmissione delle doti, il Dna. La ricerca si concluderà con un gesto definitivo. Capiremo che non basta essere madre e figlia biologiche per essere famiglia, non necessariamente. Perché se famiglia si è, si deve aver costruito le basi di quell’edificio capace di reggersi anche dopo un’alluvione, un terremoto, uno tsunami forte tanto da squassare la facciata ma non le fondamenta. Si è famiglia anche nell’assenza, purché involontaria. Come ci spiega Masashi in “Foto di famiglia” quando, viaggiando per il Giappone per scattare ritratti, nel 2011, si troverà nella prefettura di Iwate, luogo terremotato del Tōhoku dove si abbattè un violento tsunami. E lì nel recuperare fotografie con la speranza di restituire questi ricordi alle loro famiglie, si imbatterà in una bambina senza più il padre, perché morto. La piccola chiederà a Masashi una foto della sua famiglia e lo scatto che ne
verrà fuori, sarà caldo e ricco, esaustivo, perché un secondo prima del click la bambina – fino a quel momento affranta – sorriderà capendo che il padre c’è lo stesso, presente nell’assenza, la sua famiglia c’è perché c’è stata. Le foto servono a questo, se l’occhio è quello giusto, a riempire il vuoto con il ricordo.
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