Saranno in tante, non saranno tutte. E’ libertà anche quella di scegliere di non andare a manifestare che si è donne. L’idea che i diritti acquisiti vadano dati per scontati è forte tanto quanto quella di evidenziarli, anche se è silente. Una riflessione su questo, su un popolo rosa che sente il bisogno di farsi notare e colorare un po’ più vivacemente non è inferiore, come potenza, a quella di chi – da casa – dice no. Nel giorno in cui si prendono le distanze da un’Italia che comunque è quella vista, raccontata e vissuta quotidianamente, in questo giorno in cui è più importante esserci che essere, più forte che mai si catapulta adddosso a chi scrive la negativa certezza che per queste donne che siamo tutte noi rischia di essere più importante sfilare, piuttosto che la quotidiana incessante lotta per i diritti secondari. Chi non scenderà oggi in piazza, a Roma come nelle decine di città italiane, non sta dicendo automaticamente transeat. Piuttosto, non ritiene di dover ancora e nuovamente scendere a prendere freddo per ribadire certezze già acquisite. Ancora parlare del corpo delle donne da non svendere sembra, in un paese in cui esiste una genia di persone che ha voglia di farlo, fuori luogo e inutile. Produrre un cambiamento di mentalità è una fatica più disperante di un pomeriggio di raduno, sebbene sentito e motivato. E’ un lavoro di anni, è una lavoro sulle generazioni, è un lavoro di leggi e di politiche di lavoro con l’occhio all’universo femminile. Un percorso difficile per il livello al quale è ridotta questa nostra democrazia allo stadio calante. Più efficace sarebbe ora un silenzioso velo di mestizia su tutto questo circo di tristi ballerine senza arte né parte, senza famiglia e senza futuro, senza obiettivi se non quelli discutibili. Il resto è e continua tristemente a essere pubblicità di risulta, gratuita e senza risultati apprezzabili per l’Italia onesta che non frequenta né pratica. Ma la sensazione è che si è al centro di un grande spettacolo, che poco ha della poesia di The Truman Show e molto vanta dell’arroganza cialtrona di Cettola Qualunque che comunque ci ricorda, sempre e in ogni dove, che “noi siamo la finzione” e lui è la realtà”. Cominciare a entrare in un’ottica del genere può essere il primo passo per guarire da questo male incurabile che ci sta divorando. Perché è certo che se il parassita si attacca, lo fa laddve trova lo spazio per vivere. Altrimenti cambia aria, cerca altrove. Eppure si fa fatica a pensare che per far veramente decadere una mentalità turpe e vergognosa, un signorile velo di silenzio sarebbe più efficace di tante inutili sollevazioni di sdegno di facciata per svergognare chi offende il proprio corpo. E personalmente, in una giornata come quella di oggi, io ho davanti agli occhi un corpo di donna, quello sì, offeso. Offeso da altri, senza una colpa che giustifichi l’oltraggio eterno del volto violato: Bibi Aisha, 18 anni, originaria di Uruzgan, nel cuore dell’Afghanistan. Sono suoi i lineamenti distrutti dalla rabbia cieca dell’ignoranza, è sua la vita malmenata che esce fuori da una foto destinata a farci guardare allo specchio. La foto che ha vinto il world press photo 2011, scattata dalla sudafricana Jodi Bieber (Sudafrica) e pubblicata su «Time» il primo agosto 2010 ha fatto parlare e discutre. Ma alla fine ha raggiunto il risultato e ha vinto anche categoria «Ritratti individuali». E forse non è un caso se in questo momento di volgari sguardi gettati con bramosia, si mette in luce e si ferma per sempre uno sguardo pulito e lucido, si dà voce a un volto che parla pur nel silenzio e ci si sofferma, adesso sì, a osservare quel che mai si vorrebbe: l’orrore vero del corpo rovinato senza consenso. Perché è qui che si gioca il ruolo della donna, nel saper individuare e distinguere tra chi approfitta e chi subisce, tra chi sfrutta e chi patisce, tra chi realmente è vittima e chi è carnefice. Resta solo da augurarsi che le donne, le tante scese in piazza in oltre 250 comuni italiani, non abbiano fatto il gioco di difendere l’indifendibile: chi si fa chiamare donna e della donna non solo non ha niente ma piuttosto è la prima carnefice di se stessa.
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