Ho divorato la riflessione di Eugenio Scalfari sui mali antichi che insidiano l’Italia, primo tra tutti la rabbia. Un malessere subdolo che si è insinuato nelle viscere nel nostro Paese, permeando gli animi di ciascuno, a diversi livelli e innescando una lotta fratricida che nell’esempio più immediato e attuale è rappresentato dall diverse ragioni che convivono a Taranto: quella dei 18mila lavoratori dell’Ilva (30mila se si considera l’indotto) a rischio di perdere il lavoro e quella dei 186 mila abitanti, tutti quanti, bambini e neonati compresi. Una riflessione che il fondatore di Repubblica riprende dall’attore Riondino, attivo nella protesta tarantina; una riflessione che però lascia tutti noi in una strana epoché, sospesi e incapaci di giudicare a chi tributare la vera ragione. Consapevoli delle ragioni di tutti e che tutti hanno la loro ragione. Un discorso che ovviamente si estende sia ai lavoratori dell’Alcoa che a quelli della Carbosulcis.

Eppure nella rabbia su cui ci fa riflettere Scalfari, annoverata tra i mali antichi che ci affliggono, io tristemente avverto un odere di novità. Moderna. Nel senso che è figlia di questi tempi in cui si coltivano ritmi frenetici e affannosi per cercare di conquistare gli agi di una vita che costa. Di un benessere che costa. E che non vale il tempo che gli viene dedicato. E così si incappa in persone dal doppio cellulare o in confessioni di prestiti avviati per fare vacanze da sogno. Un paese di naufraghi arrabbiati che galleggiano su materassini bucati nel tentativo di arrivare prima di altri a toccare terra sull’isola che non si vede perché non c’è.

E quindi si corre, non ci si dedica tempo, si cerca di superare. E poi ci si arrabbia contro chi è arrivato prima o, ancor peggio, nei confronti di chi è stato messo dalla vita o dai propri meriti, nelle condizioni di avere di più. E questo, a parer mio, è tanto più vero quanto più – come ci dicono i dati pubblicati ieri dai giornali – si amplifica la forbice tra chi sta bene e chi sta male.
Ma a convivere con la rabbia e con la negatività si corre ben più di un rischio. Anzitutto che il Paese venga fiaccato nella sua positiva creatività (“Che cosa lo faccio a fare?” “A che cosa serve?”) e poi, ancor peggio, si profila la diminuzione di senso etico, cardine di ogni Stato civile. Per cui aumenta quell’acredine degli uni contro gli altri che diventa ferocia quando il pane è poco e si è in tanti. Insomma, la lotta è aperta. A sintetizzarlo: mors tua vita mea. Un cannibalismo che via via verrà legittimato. Come lo era in tempo di guerra, il furto dei vivi ai danni dei morti.

Infine. Il rischio maggiore, per come appare a me questa deriva tra collasso economico (destinato a perdurare almeno per un quinquennio), ottusa persistenza di una mancanza di senso dello Stato e presunzione di non voler rinunciare a niente di quel che sì è finora avuto, è un generico impoverimento dei rapporti umani, e – in particolare – della genuina sincerità degli uni verso gli altri. E in un contesto, in un qualsiasi contesto (sociale, relazionale, lavorativo, sportivo), nel momento un cui viene meno la sincerità è venuta meno la base su cui edificare. Cioè, la sostanza.

Categoria: Archivio

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