Italia, Paese degli appuntamenti. Mi sveglio con questa idea, dopo essermici coricata sopra. Degli appuntamenti mancati, per la maggior parte, e in alcuni casi fissi o fissati già da tempo. Uno di questi è quello con gli innumerevoli articoli giornalistici, riflessioni, editoriali, commenti, post e contropost sull’imminente avvio dell’anno scolastico. Con tutto il corollario di inevitabili argomentazioni che non possono mancare. Tra queste, la questione del personale carente (che appare evidente solo a fine estate e chissà perché mai in primavera, laddove ci si potrebbe metter mano); l’annoso problema, oggettivo, del caro scuola: anche qui. Lo percepiamo a ridosso dell’avvio e mai a inizio estate, quando tutto (zaini, cartelle, matite etc etc) potrebbero costar meno perché soggetti agli inevitabili “saldi” tematici. E via dicendo.
Una questione imbarazzante, sia per noi giornalisti che per chi ci legge/ascolta perché gli articoli rischiano di risultare come gli argomenti: riciclati dagli anni precedenti, fatti salvi il nome del nuovo ministro dell’Istruzione e, quando aggiornati, i dati dovuti alle novità derivate dai concorsi.
Scuola: la questione delle questioni
Mai che la scuola venga trattata per quel che è: la questione delle questioni. Tale quindi da conferirle l’omaggio di riflessioni preventive. Come ad esempio ha fatto la Francia che ha pensato in anticipo, ovvero a giugno, di votare una proposta di legge della maggioranza di governo, La Republique en Marche (LREM), che introduce il “divieto effettivo” dei telefoni cellulari nelle scuole elementari e nei licei dall’inizio dell’anno scolastico, ovvero da adesso.
Sia chiaro, non siamo di fronte a una mossa geniale, ma politica. Perché Macron non ha fatto altro che mantenere una promessa elettorale, trasformando uno slogan in realtà attraverso il voto del parlamento.
Un risultato che si porta dietro una doppia considerazione: anzitutto quella che Macron abbia scelto come promessa (leggi specchio per le allodole) un elemento relativo alla scuola e cioè alla sorte delle future generazioni. Significa anzitutto che la scuola è sentita – non a caso lì gli insegnanti sono considerati intellettuali in grado di determinare l’orientamento della nazione, vedi Pennac, mentre qui sono purtroppo relegati a una posizione sociale subalterna.
Una mossa che per poco che otterrà, avrà comunque l’impronta di insegnare agli scolari – futuri cittadini – che sul lavoro o nel momento dell’impegno non ci si deve distrarre né disturbare.
E poi, altra considerazione, che a una promessa politica è seguito un fatto che è stato realizzato nel tempo necessario a portarlo a termine. Cioè: l’ha detto, l’ha fatto. La certezza della riforma, direi.
È poco? Chiediamocelo e diamoci da soli una risposta.
Un Paese che tra le tante promesse elettorali punta sull’attenzione in classe, sul rispetto a scuola, sulla distinzione tra tempo del dovere e tempo libero, sull’importanza del non essere interrotti, distratti e del dedicare se stessi a ciò che si fa e al rispetto di chi insegna, è uno Stato che va imitato. Copiato, verrebbe da dire visto che siamo in tema di scuola.
Questa del cellulare era un’occasione. Che a questa data è dichiaratamente persa.
Peccato. Poteva essere un passo in avanti verso l’idea del rispetto dei luoghi, degli ambienti e delle situazioni. Un indomani, forse, non ci saremmo trovati davanti un adulto che ride a voce alta guardando Youtube davanti al Colosseo o al Botticelli. Ma che vogliamo che sia.
Basta che a settembre diciamo che le matite costano troppo e ci siamo tolti anche quest’anno il peso.
Dovevamo copiare, sì. Questa volta sì. Ma per tempo, magari con riflessioni partite in primavera per essere attive in autunno. Un po’ come le collezioni della moda. Appuntamenti fissi e fissati con largo anticipo e ai quali, guarda un po’, non si manca mai.
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