C’era una volta l’intervista. Grillo parlante che faceva capolino, appollaiato sulla spalla del giornalismo di prima, la sua posizione – forza maggiore – era scomoda. Eccome.
Che si trattasse di merce rara era intuibile già tanto tanto tempo fa; che fosse materia in via d’estinzione è diventato chiaro nel tempo. Che adesso sia ipotesi di lavoro, è una certezza assoluta.
Generalizzare non è mai elegante né utile, si sa. Eppure che quel che c’era una volta, adesso non c’è più è un dato di fatto incontrovertibile quanto doloroso. Regola universale.
Poi, è anche vero che c’era una volta chi le interviste le faceva.
Ognuno ha i suoi. Di libri sullo scaffale, di romanzi che lo hanno segnato, di volumi che hanno contribuito a renderlo quel che in nuce già era e quel che oggi è. Romanzi, racconti, saggi.
Molti hanno in casa alcuni dei testi più conosciuti di Oriana Fallaci. Pagine che hanno fatto il percorso e preparato i cambiamenti di questo Paese.
Alcuni hanno anche Intervista con la Storia.Ogni giornalista dovrebbe averlo studiato. ChiIntervista lo ha letto, ha acquisito – con quelle pagine – informazioni, nozioni e conoscenze. Ma soprattutto, a saperli individuare, i rudimenti-gioielli di un tesoro necessario alla professione.
Di certo non la capacità, quella è un’altra storia. Ma il metodo aveva buone possibilità di filtrare.
Nella memoria sarebbero restate vive per sempre le domande incalzanti rivolte ai grandi del mondo, l’irriverenza sfrontata, le mille sigarette accese, fumate, spente, riaccese, rifumate, rispente, che cadenzavano un confronto via l’altro. E sì che gli intervistati non erano persone facili. Ma neanche la penna della Fallaci era comoda. Eppure il lavoro veniva avviato, svolto, concluso e pubblicato.
Perché? Erano “tempi diversi”? Anche se questo dei tempi diversi rischia di essere troppo spesso un alibi discutibile. Oltretutto, che cosa vuol dire diversi, quand’è ovvio che fossero tempi tali per il solo non essere attuali?
O forse perché ballo e, solo dopo, in mostra c’era un professionista?
Quanto era preparata la giornalista Fallaci, quanto era pronta a reagire alle domande di chi non vedeva l’ora di metterla in difficoltà? Quanto poco era ripiegata su se stessa, e disposta – invece – a dar battaglia per vedere affermare le seconde verità?
Bisognerebbe porsele, alcune domande, ogni tanto. Addetti ai lavori e non. Intervistarsi. Auto rivolgersi degli interrogativi e rimanere fermi, lo sguardo fisso, ad aspettare le proprie risposte. Magari anche un registratore acceso. Una di queste, ad esempio, potrebbe essere se sarebbe mai stato possibile intervistare figure di rilievo senza essere un professionista del settore. E che cosa arriva ad affermare, un Paese, quando si affidano lavori delicati a chi non è abilitato a svolgerli.
Chiediamocelo.
E poi chiediamoci anche se valuteremmo lecito che un cantante entri in sala operatoria per operare un malato, che un ingegnere (anche solo per una sera) gestisca le cucine di un ristorante al posto di uno chef, che un fioraio visiti un paziente al posto di un dermatologo.
Snocciolato il rosario degli interrogativi, diamoci una risposta.
A lume di naso suonerebbero tutte come anomalie. Gravi e inaccettabili. Perché in un caso ne andrebbe della salute del cittadino, nell’altra del buon nome del ristorante…
E allora come mai non ci chiediamo, anzitutto che fine ha fatto l’Intervista e subito dopo che fine hanno fatto gli unici titolati a farle? Chiediamoci anche questo, e proviamo – se ce la facciamo – ad ascoltare l’unica risposta possibile. Con buona pace di chi il diritto all’informazione lo tutela per tutti. Intervistati, intervistatori e cittadini (compresa la loro salute).
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