Non fosse che era in diretta, sarebbe stato da rallentarlo, Carlo Verdone, quando ieri sera  – ospite di Lili Gruber a Ottoemezzo – si è lasciato scappare, sconsolata e amara quella frase senza appello: “Roma è in vendita, anzi: in svendita. L’Italia tutta è in svendita…”. Rallentarlo e riporporlo. Veritiero e rassegnato.
Questo passaggio di una puntata che secondo me è stata tra le più acute  – sia per la scelta ospiti che per i loro contenuti – ha rappresentato, ancora una volta, la certezza che l’analisi spietata e nuda dei tempi in cui viviamo può essere affidata solo alle arti e alla sensibilità di chi vi si dedica. E che la satira, la comicità, la lucidità della comprensione delle fasi che attraversiamo non deve sempre subire dei lunghi percorsi di macerazione storica: dipende chi è il contemporaneo che analizza e se ha o no gli strumenti per farsi luce.
Carlo Verdone ieri non è stato solo il comico che noi tutti sappiamo. Anche perché chi lo conosce e lo ama sa che lui non è solo un comico giacché al pari di Sordi e di Flaiano (non a caso entrambi citati, ieri), lui è un filosofo dei tempi moderni: bisogna capirla, l’attualità, per restituirla attraverso delle macchiette.
In alcuni casi, in quelli più sublimi, la si sa addirittura anticipare.

C’è da sporcarsi con la quotidianità per poi poter raccontare in modo lineare quel che ci sta attorno. E lui ha avuto il pregio estremo di saper cogliere con l’intuito – e con una cultura radicata in famiglia, questo non va dimenticato – l’Italia che cambiava quando i mutamenti erano ancora all’inizio. Il burino, lo zoticone, il coatto, il periferico che hanno arricchito il nostro bagaglio cinematografico e culturale erano appena visibili quando lui li ha dipinti: “Uno di questi fa ridere, mille fanno paura”, ha spiegato Verdone con un sorriso disilluso nello spiegare il profilo dei tanti italiani zoticoni che negli anni Ottanta si armavano di calze di seta, penna biro o accendino per incentivare il traffico sessuale di un’Europa dell’est ancora da venire. A ben pensarci, non c’è altro da aggiungere per rappresentare il dramma nascosto dietro le risate ignoranti che facevano da sfondo a questi racconti.
La stessa sorniona linearità con la quale Sordi ci ha dipinto l’arroganza dei cittadinotti che si vestono da vigili urbani (dietro c’è la critica all’ascesa di una nuova categoria di potere), l’Italietta che si illude di essere a stelle e a strisce e invece si getta a capofitto nel maccherone tentatore, nostra croce e delizia. E ancora: l’ostentata tracotanza di un sedicente divo, icasticamente resa da dentoni inguardabili; o medici della mutua che non c’è bisogno di raccontare….
Tutte queste figure sono in realtà i nostri cappi al collo: sintesi portentose di animi capaci di puntarvi sopra i riflettori al solo fine di lluminare i nostri vizi e metterli alla berlina.
Maestri in grado di capire, con la loro sintesi efficace che quel che prima era avanspettacolo evidente, ridicolo conclamato, elemento di vergogna rispetto al quale nascondersi, oggi vive e troneggia accanto a noi indisturbato. Il burino, il coatto, il ridicolo cialtrone che nei trent’anni di film di Verdone hanno avuto l’indice puntato contro attraverso la risata, adesso sono stati sdoganati e si sdraiano comodamente accanto a noi che siamo seduti. Quell’ignoranza che prima era irrisa e schifata, oggi è ci sovrasta e comanda. E ci comanda, prepotentemente, perché non è capace di governarci. Neppure di fingere. Eccole dove sono, Roma e l’Italia in svendita di cui si rammaricava Verdone. Eccolo chiuso il cerchio che ha permesso a questo grandissimo artista che ha capito e ritratto i suoi tempi di intuire lo sbrodolamento a valle in cui stiamo precipitando. Una grande telesvendita stigmatizzata non da un comico, dopo ieri non lo chiamerei più solo così, se è vero – come credo – che la cronaca che si fa attualità ha bisogno, per essere raccontata di profonda poesia.

Categoria: Archivio

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