Il teatro della morte va in scena in tv e noi siamo lì che guardiamo, bavosi e avidi. Increduli e attoniti di fronte a quel che non vorremmo vedere e persino incapaci di capir fino dove bisogna spingersi. Assetati di curiosità marcia “direttamente proporzionale alla gravità del fatto”, recitava oggi uno psichiatra dai microfoni dei tg. E’ vero, come è vero che sull’autostrada si formano le code dei curiosi, come è vero che fuori dai tribunali si fanno file di ficcanaso che non sono neanche parenti lontani degli imputati, come è vero che c’è chi cerca tracce o brandelli di prove sostituendosi agli investigatori e alle autorità.
Un voyerismo, ci piacerebbe dire, senza paragoni, eppure di paragoni ce ne sono eccome. Da Garlasco a Novi Lugure, da Cogne a Erba. Chi vuole accomodarsi, prego, non esiti: c’è spazio per tutti. E proprio questo è il problema: che c’è spazio per tutti. Per chi vuol dire la sua e per coloro ai quali chiediamo noi di dire la loro: psicologi, psichiatri, esperti. Ma esperti di che cosa? Auguriamoci per loro di non esserlo di ciò di cui sono invitati a parlare, altrimenti va detto che fanno davvero una vita difficile.
Eppure quanto questo sia un gioco delle parti è davvero così difficile da capire? Nel mio lavoro di cronista più e più volte mi è capitato di essere trattata con poco riguardo per il solo fatto di aver chiesto un’intervista o un’opionione alle persone che incontravo sul luogo. Ebbene, mi spingo a sostenere che a bilanciare qualche coerente che detesta i telegiornali, chi vi lavora e chi li dirige, c’è una massa indefinita di persone succubi dell’immagine amplificata che la tv regala. E loro questa immagine la desiderano. La vogliono vedere. Non solo: vogliono vedersi loro e vogliono che la vedano tutti. Sono le persone che dopo aver negato un’intervista al giornalista di turno, all’ora di pranzo o di cena siedono in prima fila davanti allo schermo per verificare che in onda ci siano anche loro. Che abbiano o meno risposto alle domande che venivano loro fatte: andare in tv è cosa immensa.
Questo, l’atto dovuto. Ma guai a pensare – almeno questo è il mio punto di vista – che vadano prese le distanze da un telespettator che comunque sono io, che comunque siamo noi. Perché chi decide che cosa mandare in onda non è un extraterrestre: vive, respira e ha le stesse suggestioni che abbiamo tutti. E quando decide su che cosa puntare lo fa perché è una persona e perché lo colpirebbero e resterebbe a guardarle quelle stesse immagini che sta per proporre. Comprese quelle delle persone in coda dietro al cancello di casa Misseri, ad Avetrana. E allora perché meravigliarsi del fatto che la “gente” vuole guardare? Perché noi giornalisti andiamo a caccia di immagini? Non siamo forse pronti a stare di vedetta anche mezze giornate intere pur di rubare un fotogramma che permetta di ritrarre un carattere? Personalmente fin dall’inizio di questa torbida vicenda non mi ha mai convinto la figura della cugina Sabrina. E mi sono sbilanciata quando ancora era presto per farlo. Oggi che è più facile per tutti mirare il bersaglio, su di lei vengono confezionati ritratti su misura e sviluppate analisi psicologiche dell’ultima ora. Bene anche questo. Ma in un show tetro come pochi possono essere non è forse Sabrina la più coerente con la figura che le si sta delineando addosso quando dice “Che cosa dicono di me in tv?” Come possiamo meravigliarci – eppure l’abbiamo fatto – che le vengano idee di questo genere in momenti tanto drammatici? Sabrina non è neanche lei, al pari di chi fornisce l’informazione, un personaggio di un altro pianeta: il suo paese, la sua casa, la sua famiglia, lei stessa si è trovata al centro di un vortice mediatico che non ha lasciato spazio alla logica. Frastornata e confusa, ha perso di vista quali sono i giudici dai quali aspettarsi un responso e si è tradita: non ha menzionato minimamente i magistrati, no. Per lei importante, vitale, era l’opinione pubblica: “Che cosa dicono di me in tv?”
C’è poco da aggiungere quando la deriva è così evidente. L’importante, per chi fa il nostro mestiere è tenere conto che questa frase rubata (guarda un po’) non rende Sabrina diversa o peggiore, da questo punto di vista, dalle centinaia di persone che si sono accalcate ad Avetrana per – letteralmente – farsi i fatti degli altri. Dirò di più: chi fa il nostro lavoro deve tenere sempre presenti i limiti, ognuno si dia i suoi, ma tutti dovremmo ammettere, prima o poi, che le Sabrine mediatiche e i pellegrinaggi voyeuristici contribuiamo a inventarli in parte anche noi. Perché altrimenti non infileremmo, una dietro l’altra, dieci pagine di giornale o cinque servizi di telegiornale tutti rigorosamente su un delitto che ha solo bisogno di un velo pietoso adagiato sopra. Si chiama rimestare nel torbido, non c’è altro modo di dirlo. Ma spiare dal buco della serratura, si sa, è un male incurabile tanto quanto la guerra.
Intanto, mentre ad Avetrana sono tutti guardoni, a Roma nessuno vede. Una donna a terra, inerme, chiaramente senza vita resta come un manichino rovesciato tra l’indifferenza dei passanti e una morte che si stava affacciando piano piano. Un minuto si è detto. Ed è vero. Lo è ancor di più per chi scrive, che ben conosce quella zona, quella fermata e quel viavai frenetico che caratterizza lì ogni ora del giorno. E’ facile, in quella staizone soprattutto, crocevia di ogni tipo di nazionalità che alla sera tornano verso le borgate dagli affitti meno cari, perdersi nella fretta di una coincidenza da non lisciare. E poi c’è la paura. Perché non è raro, lì, trovare gente sdraiata a terra, magari ubriaca o distrutta, che ciondola da un lato. Ma Maricica, 32 anni, non pendeva da una parte, non aveva la mano tesa dalla quale bisogna scappare, non dava segni di molestie per cui “è meglio affrettare il passo”. Maricica è morta per un litigio stupido, d’accordo. Ed è morta anche perché ha perso i sensi ed è caduta nel peggiore dei modi. Poi c’è stata anche la sfortuna – e nessuno lo nega – perché non tutti i giorni si muore per una scazzottata. Ma Maricica lascia un figlio di tre anni dopo essere morta da sola. Lasciata a terra, senza un solo muscolo che le si muovesse. E anche questo, non giriamoci intorno, ce lo hanno confermato le immagini. Che hanno amplificato, esasperato, reso quasi vuoto quel gesto di violenza incontrollata commesso da Alessio Burtone, il 20ene romano che adesso rischia il carcere per omicidio preterintezionale.
Di fronte a questi due estremi, il voler guardare a tutti i costi e il voltarsi dall’altra parte per non guardare, si resta senza capire la deriva che sta prendendo questa nostra società fondata sul vedere, sull’intravvedere, sullo spiare quel qualcosina in più perché drammaticamente lo slogan è “più vedo, più mi vedo e più (mi convinco che) sono”.
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