Ho sempre avuto un’insana passione per i titoli. Passione che invece di affievolirsi, con il tempo è andata aumentando. In quella sintesi corposa vedo un prodigio: dire poco ma tutto in modo efficace. E poi i titoli sono come l’uomo, né angelo né bestia (scusa Pascal), perché sono sempre di parte, ontologicamente impuri.
E così per derivazione, mi succede che quando inciampo in un’espressione che
racconta con una pennellata un mondo intero con una licenza a mio uso e consumo, la definisco titolo.
Mi è successo ancora ieri, quando al telefono con un’amica, ascoltando le sue parole, ho avuto un momento di stordimento. Parlava con dispiacere di una conoscenza ormai vittima della
tecnologia e lo definiva Orfano della realtà.
Un brivido.
Orfano della realtà. Ovvero quell’individuo che alle persone fisiche preferisce i loro profili Instagram, che alla telefonata preferisce il whatsapp, che all’incontro di persona
preferisce la mail, e via dicendo.
Un titolo pazzesco, un regalo inatteso, che mi ha tenuto compagnia almeno per le due ore successive ma che poi mi ha messo di fronte a un obbligo: scartarlo, questo dono, e vedere che cosa celava quella sintesi portentosa che tanto mi aveva attratto. Perché tutti, anch’io, abbiamo a che fare con degli orfani della realtà. Tutti ne conosciamo e tutti –
ammettiamolo – lo siamo.
Faccio un ripasso rapido di quanti posso contarne intorno a me ogni giorno. La risposta è “troppi”. Ci sto anche io dentro a questo mondo di orfani. Mi chiedo chi ci ha smarrito, chi ci ha abbandonato per sempre. Quando è stato che abbiamo tradito Aristotele, se l’uomo da animale sociale è divenuto bestia social e poi leone da tastiera, coraggioso alla morte se schermato e protetto, pavido e isolato se chiamato ad apparire. Dove si è inceppato quel meccanismo umano che spinge(va) due persone a vedersi e a parlarsi. A guardarsi, aridare valore a quella prossemica interrupta da un click, un like, un invio, un cuore, un condividi. Distorta dallo schermo di un pc o di cellulare. Sempre presente sul bus, sul
treno, per strada, nelle fugaci pause pranzo: tutti chini sul nostro telefonino, presenti e assenti allo stesso tempo. Incapaci di stare senza controllarlo persino durante una cena. Il piatto davanti, le posate a destra, il cellulare a sinistra.
Orfani della realtà. Vittime dell’arma più rivoluzionaria che abbiamo, la tecnologia.
Non ce ne accorgiamo, questa è la controtesi, ma stiamo cambiando noi stessi, non solo il nostro modo di vivere. L’allarme degli oculisti che ormai già da sette anni denunciano un’impennata della miopia in età adolescenziale dovuta alla lettura dei cellulari è
inascoltato. E qui parliamo di fisico, poi c’è l’attenzione.
Ancora ieri sera l’espressione della mia amica mi è tornata alla mente mentre durante un concerto live di amici talentuosi, non pochi tra gli spettatori erano concentrati sul loro cellulare. E non per fare video o fotografie, magari. Semplicemente facevano altro mentre -disinteressati – qualcosa davanti a loro si consumava. Siamo alla follia, mi sono detta: da un lato il palco, la musica, l’evento, l’emozione. Dall’altro, la platea, la dissociazione, il mondo altro, quello che non è qui, sempre più importante. Quel pubblico non stava dialogando con gli artisti, che pur era andato a vedere ma non ad ascoltare. Quel pubblico era seduto lì ma non era presente, era orfano della realtà.
E poi c’è il sociale.
Vale la pena leggere – anzi studiare – l’interessante riflessione riportata da D circa il pericoloso crinale intrapreso dagli adolescenti “Sempre più connessi, sempre più isolati”.
Un riferimento allo studio sostanzioso della sociologa Sherry Turkle che addirittura trenta anni fa aveva lanciato un avviso ai naviganti, è il caso di dirlo, sugli effetti dannosi del digitale sia a livello culturale che nei rapporti tra persone. Sembrava utopia e invece
detto-fatto. Eccoci a essere uomo-animale social. Con un rischio di annullamento totale del mettersi a nudo e dell’esporsi in prima persona. Intanto l’IA bussa alla nostra porta.
Mi assale il terrore che anche io possa vivere la stessa condizione e più spesso di quanto mi renda conto. La domanda è d’obbligo e me la pongo da sola: C’è stato ultimamente un frangente in cui ho preferito una mail a un incontro, un whatsapp a un caffè di persona, un vocale a uno scambio animato, che richiede il suo tempo e che ha i suoi diritti? Sì, c’è stato.
Realizzarlo è doloroso quanto ammettere di predicare bene e razzolare male. Per lo meno non lo nego, mi consolo. Ma non basta, perché nessuna riflessione deve rimanere senza azione.
Così ricomincio da me, perché fuori da me non posso obbligare nessuno. Anticipo i buoni
propositi per l’anno che riparte e che mi dò solitamente nella seconda metà di Agosto.
Quindi confermo – anzi rafforzo – un’abitudine consolidata a tavola, la sera a cena.
Quella che vede, a turno, me e i miei figli, dirci di persona com’è andata la giornata e che cosa ciascuno di noi ha fatto (di positivo e di negativo). Si parte con la mia voce: “Oggi comincia a parlare…” Indico a casaccio uno dei due che a quel punto è il primo a dover dire la sua per forza. E così uno dopo l’altro, tocca a tutti tre entrare gli uni nella
giornata degli altri.
Si chiama dialogo, è partecipazione. Non prevede la vicinanza dei cellulari, perché a tavola no (è una regola rispettata). E quindi non c’è mai nessuna interruzione.
Sono sincera, non sempre tutti ne abbiamo voglia, a volte le giornate sono state pesanti o frustranti, altre semplicemente piene. Ma a me non interessa: lo spazio del dialogo a tu
per tu, anche se breve, anche se limitato perché i giorni non sono tutti uguali deve
essere un esercizio non negoziabile.
A chi mi ha chiesto perché su questo punto non mollo, la risposta è stata che è uno sforzo al quale non rinuncio perché non rinuncio a loro due. Che lo so benissimo che a volte non vedono l’ora di alzarsi da tavola e rifiondarsi sui loro dialoghi virtuali con coetanei. Ma nei giorni in cui l’esperimento funziona e si dibatte a turno su questa o quella notizia, su una decisione presa da chi ci governa, sulla scuola, sull’università, sulle famiglie e non sulla famiglia unica, sull’importanza dell’educazione finanziaria fin dalle elementari, allora vedo che le radici del dialogo stanno attecchendo eccome. Percepisco
le loro teste come si muovono e individuo i percorsi che ognuno di loro fa per arrivare a una sintesi. E quel percorso è l’idea nebulosa che si fa convinzione, ognuno la propria.
Quello spazio intorno alla tavola è un esercizio di maieutica al quale non si può venire meno, perché la formazione – che non è educazione né istruzione – è una fatica inenarrabile ma obbligatoria.
Nel mio piccolo mi convinco che questo lavoro (perché è un lavoro) serve a far sì che quelle due teste fresche che ho davanti – una femminile e l’altra maschile – si allenino oggi per reagire domani con gli strumenti del confronto, che significa saper fare collegamenti. E’ un modo come un altro per seminare valori ma è di sicuro un metodo
per combattere il pericolo oscuro dell’intolleranza. E’ la mia lotta quotidiana, perché chi non vede più gli altri (schermato da un cellulare o da un pc) finisce con il vedere solo se stesso e le proprie idee. Paura. Gli estremismi e i radicalismi nascono lì, in quel cono d’ombra che rafforza le proprie convinzioni.
Per questo la sera, intorno a quel tavolo ancora apparecchiato per un momento che dura il tempo del dialogo quotidiano mi illudo che mentre parliamo a voce e di persona non ci siano orfani del reale. Di più, che nessuno di noi tre sia orfano del reale, neanche un po’ e almeno per un altro po’.
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